martedì 26 marzo 2013

The Walking Dead: peggio gli zombie o la paternità?

The Walking Dead (Telltale Games 2012)




Come al solito noi di Spielmechanik ci buttiamo sul pezzo sempre per tempo, e visto che ormai più di 4 mesi fa The Walking Dead ha vinto i Video Game Award 2012, mi sembra doveroso fornire ai nostri lettori (che sono 4: un dj di Pesaro che ha a che fare con le pecore, un appassionato di ornitologia, un anziano brianzolo che crede di essere in un blog per incontri piccanti e una amica immaginaria di von Fieber) un'accurata recensione di questo gioco, originariamente rilasciato a puntate per spillarci più soldi.

The Walking Dead, ispirato all'omonimo fumetto che ha ispirato l'omonima serie tv, che non sarebbero mai esistiti senza i film di Romero, è pieno di zombie. Chi l'avrebbe mai detto. Un gruppo di sopravvissuti all'apocalisse cerca di salvarsi da orde di morti viventi bramosi di carne umana, e si fa largo a colpi di accetta e martello e armi da fuoco tra i claudicanti cadaveri ambulanti, mentre un professore di storia che si chiama come la macchina di Bo e Luke (senza essere generale) deve prendersi cura di una bambina di nome Clementine. Chiariamo subito che la bambina è di quelle gentili ed educate, non di quelle scassaballe, cosa che avrebbe reso il gioco molto diverso, e quindi tutto va bene.

Clementine e la sua tipica faccia da "Oh cazzo sto per morire"
Confesso in anticipo che The Walking Dead mi è piaciuto assai. Alla fine quasi piangevo. Insomma, potete dire quel che volete, che non è rigiocabile, che è una storia interattiva, che è un trionfo di sentimenti (positivi e negativi, mai melensi), ma a me è piaciuto. Quindi contento me, contenti tutti. 
Come al solito la scusa degli zombie viene usata per sondare l'animo umano, e il gioco riesce a far emergere il meglio ed il peggio della nostra specie (e di noi stessi). Credo che abbiate capito l'antifona: è un gioco dove l'azione massima arriva quando si apre una porta, quindi se volete l'action spaccateste rimanendo nello stesso franchise rivolgetevi altrove (se avete coraggio: pare sia una cagata).

L'amiciza uomo-zombie è al momento un'utopia lontana.
Questa poi è pure una donna.
Ci troviamo immersi nel classico frame della civiltà che va in pezzi, colpita dalla piaga dei non morti, ma di fatto distrutta da se stessa e dalle sue paure: l'uomo non riesce a collaborare con i suoi simili, si rifugia in un individualismo che pare essere la soluzione migliore, ma che naturalmente non fa che peggiorare la situazione. Il mondo apocalittico è servito, un po' come quando alla crisi economica deflagrante propongono di intervenire con il più bieco neoliberismo, e si fa la fine della Grecia.

Tutto questo è un grande classico delle moderne zombie tales. Lo zombie è un nemico finto, di facciata. Il vero nemico è sempre l'uomo. Lo zombie, che è puro e decomposto istinto animale, non può terrorizzare più di quanto faccia un branco di lupi rabbiosi. Un bel problema, ma niente che non si possa risolvere con una schioppettata e un recinto.

Lo zombie però porta la paura del contagio, un contagio senza vaccino. Esso non ti elimina veramente, ma ti trascina nel baratro con sè. Già Romero si era accorto del parallelo tra zombie e proletariato. I vivi, i borghesi, che si sentono così diversi dai loro assalitori famelici, che in fondo sono uguali a loro ma solo un po' più sporchi. La facilità con cui il piccolo borghese può scivolare nell'abisso delle masse proletarie è incredibilmente simile a quello degli uomini che si tramutano in zombie. Gli uomini si cagano sotto, perdono lucidità, e invece di fare quadrato, di aiutarsi vicendevolmente, cadono in una sorta di settarismo animale che li convince che l'unico modo di sopravvivere è badare a se stessi. Morte inevitabile per quasi tutti, resistono solo i più matti/fascisti/matti-fascisti.

Lee ha qualche problema anche prima dell'arrivo degli zombie
Ma, come ho già detto, il gioco ci mette nei panni di un uomo, apparentemente buono ma dal torbido passato, insomma uno normale a parte una piccola questione di omicidi, che il destino ha avvicinato ad una bambina. E se ne deve prendere cura. La cosa, detta così, terrorizza ben più delle orde di zombie, perché il videogiocatore medio è sicuramente più avvezzo allo sterminio dei morti viventi che all'allevamento di bambine in cappellino da baseball. E infatti il gioco riesce sì ad angosciare nelle fasi di fuga dagli zombie, ma è quando Lee deve vedersela con la piccola Clementine (e con gli altri sopravvissuti), mentre cerca di fare il buon padre, che il gioco regala il meglio di sè. Anche perchè la bambina lo vede come un padre interinale, mentre, data la situazione, Lee ha visto abbastanza film per capire che è assunto a tempo pieno, quindi meglio darsi da fare.
Alla fine sarete disperati, quasi come Dawson quando
gli hanno detto che la serie era finita.

Questo secondo aspetto trasforma il gioco, da classica accusa alle tendenze egoistiche dell'uomo, in un lumicino di speranza, perché non solo siamo costretti a far emergere il buono che c'è in noi per salvare la bambina da numerosi tentativi di divoramento, ma questo sentimento di protezione, di amore, di coesione, che dovrebbe appartenere a Lee, si impossessa di noi e non ci lascia più, fino al finale, quando saremo tutto un sniff sob sob e sarà ormai troppo tardi per capire che il lato sentimentale di Lee siamo stati noi a crearlo, e quindi siamo noi le mammolette.  
Terrificante.

Tranquilli, niente che non si possa risolvere con qualche sessione desensibilizzante di Carmageddon.

Insomma, inaspettatamente bello, potente, coinvolgente, anche se purtroppo terribilmente one shot proprio a causa di quei sentimenti e quelle emozioni che suscita. Sarebbe un po' come rivivere la vostra prima volta con quel che resta della vostra coscienza di adesso: dubito che sareste altrettanto emozionati.

Lui non c'è, non ci sono balestre, non ci sono motociclette.
Sia chiaro.

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