martedì 11 dicembre 2012

Red Dead Redemption, la fine del mondo e la fine del gioco

Red Dead Redemption (Rockstar 2010)



Già parlando di Skyrim credo di aver espresso il senso di angoscia che provo quando gioco ad un free roaming (quei giochi, in voga ormai da anni grazie principalmente ai vari Gran Theft Auto, che consentono di vagare per vasti territori senza una meta precisa, al di là delle reali necessità della trama principale).
Non mi esaltano, i free roaming.
Ma Red Dead Redemption... è magnifico. Insomma, vagare per una città non ha molto senso (a me pestare le prostitute non diverte, vabbene?), ma quando si tratta del selvaggio west, allora tutto torna. Il cliché. Continuo. Reiterato. Abbondante. Rende il gioco commovente. Sta per succedere qualcosa e tu già sai come si svilupperà, perchè hai visto i film di Sergio Leone e di John Ford. L'eroe riluttante, i passati oscuri, il futuro da scrivere, l'irlandese ubriacone, il cercatore di tesori pazzo (e necrofilo), i fuorilegge, i messicani, le puttane, i bari... e  sparatorie, duelli, poker, cavalli e l'immancabile pioggia di piombo. Tutto. C'è tutto. Sei lì che giochi e dici "adesso succede così e così". E succede. Un copione già scritto, che comunque trasmette una drammaticità totale (e infatti fin dall'inizio si prevede come andrà a finire).
Perchè siamo di fronte ad un gioco tragico. Una tragicità a diversi livelli.

Un auto. Nel selvaggio west.
A un livello più superficiale, c'è una forte critica alla modernità. Il west perfetto di Red Dead Redemption in realtà è schiacciato dal mondo del ventesimo secolo che avanza: l'anno è il 1911. Ci sono macchine, telefoni, e l'esercito non ha più la divisa blu. Ma anche alcuni comportamenti sono quelli della moderna America (le cui origini sono implicitamente criticate): il razzismo, il fanatismo religioso, persino i serial killer. Il mondo western che conosciamo, così confortevole e prevedibile, sta sparendo. Lo sa John Marston, il protagonista, lo sanno i mandriani, i contadini, e lo sai anche tu. Tutto quel bel cliché è destinato a sparire. Arriverà la guerra. Arriverà il progresso. Il treno, le autostrade, gli aerei. Lo sai. Lo sanno.   
E tu, che vivi a cento anni dagli eventi narrati nel gioco, ti chiedi: ma tutta 'sta modernità, dove ci ha portato? E noi? Da chi verremo schiacciati? Perchè ancora una volta il tema è quello della presunta superiorità morale di una parte del mondo che cerca di eliminare un'altra cultura, ritenuta rozza e inferiore (i cowboy hanno sterminato gli indiani, e adesso gli uomini del governo sterminano i cowboy, in un ciclo senza fine...).
Questo, abbiamo detto, in superficie.

Marston sboroneggia.
Però...quei furbetti di Rockstar vogliono dire qualcos'altro. E considerato che si tratta di videogiochi, qualcos'altro di altrettanto inquietante.

Red Dead Redemption parla del crepuscolo dei videogiochi. Di come la modernità li stia cambiando. I videogiochi di un tempo erano liberi, espressione dell'estro di programmatori folli che facevano un lavoro folle. Ammesso che all'epoca qualcuno lo considerasse un lavoro. Erano pionieri, come nel west.
Clint Eastwood cerca di far fuori Marston.
Ora la modernità incalza. I videogiochi non sono più futuristiche espressioni di menti visionarie. I videogiochi sono ormai mainstream, sono accessibili, sono sui computer (che sono ovunque), nelle console (diffusissime) e nei telefoni di ultima generazione (che domineranno il mondo, schiavizzandoci). I videogiochi sono business. Sono soldi. E i soldi sono tutto, oggidì.
La cultura del west rurale di Red Dead Redemption è schiacciata da quella dell'east coast del governo corrotto, dalle immorali lobby economiche, dalle imprese che fagocitano i contadini, delle università tronfie. Il mondo dei videogiochi, parallelamente, è schiacciato da un mercato ormai globale che "costringe" le software house a sfruttare fino al midollo concept triti e ritriti, da nuovi mercati per tablet e telefoni, dalla lotta tra Sony-Microsot-Nintendo, uniche superpotenze rimaste.

Un po' di relax.
Paragone troppo azzardato? Forse. Soprattutto, si direbbe, se ci troviamo di fronte al prodotto di una casa di produzione, la Rockstar, che sembra sguazzarci, in questo nuovo mondo. Ma qui arriviamo al punto. John Marston rappresenta gli autori del gioco. Egli è l'essenza del vecchio west, costretto da forze avverse a piegarsi alle leggi di un mondo a lui estraneo, ma in cui comunque si muove con rassegnazione (e efficienza). Marston esegue le sue missioni con freddezza e precisione, ma dobbiamo ricordare che quello che per noi è un gioco (distruggere la banda Williamson) per John è dovere. Anzi, necessità imposta. John vuole campare, e fa quello che deve fare. Qual è il passatempo di John, invece? Giochi semplici come poker, dadi bugiardi, blackjack, cinque dita, braccio di ferro e ferri di cavallo. Insomma, giochi apparentemente banali, ma divertenti. Come Space invaders. Come Tetris. Come Pac-Man. Come i giochi che la modernità ci sta togliendo.  

Per carità, non si tratta di un inno al retrogaming, fenomeno che spesso si fonde con la costante tensione alla nostalgia di una generazione di trentenni incapaci di maturare, ma piuttosto di un avvertimento: la Rockstar si limita a constatare la fine di un'epoca, sia del videogioco che storica, che non riusciamo a percepire come morente.
Cowboy al tramonto. E ho detto tutto.

1 commento:

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