lunedì 9 settembre 2013

The Last of Us, gli zombie e il fragile equilibrio della nostra umanità


The Last of Us (Naughty Dog, 2013)



Sei braccato dai mostri fungini zombosi.
Sei braccato da soldati in palese deriva autoritaria.
Sei braccato da ribelli post-idealisti allo sbando.
Sei braccato da bande di desperados sadici dediti al saccheggio.
E poi c'è una ragazzina, che impara a fischiare.  
Ffffff. Ffffff.
All'inizio non riesce. Poi migliora. Alla fine impara.

Naughty Dog confeziona un mondo post-apocalittico perfetto. L'ambientazione di The Last of Us - adventure game? survival horror? di sicuro è in terza persona - è di una cupezzatm senza fine: non tanto per i colori, che passano dai grigi delle fogne alle sfavillanti policromie delle foreste a mezzogiorno, non tanto per i toni dei personaggi, che in un paio di occasioni riescono pure a farsi una (piccola) risata, quanto per l'evidente sfacelo della razza umana, falciata dagli orribili mostri che infestano il gioco, ridotta alla semplice sopravvivenza in città gestite dalla polizia, o abbandonata alle barbarie in comunità di predoni feroci come animali.
Un clicker chiede a Joel un controllo gengivale.
In un primo momento l'impressione potrebbe essere quella di un mondo gravemente ferito ma in procinto di rialzarsi. In seguito, le vicende di Joel e Ellie, i protagonisti (un uomo di mezz'età che ha perso la figlia all'inizio dell'epidemia lui, e una ragazzina senza famiglia lei), ci faranno capire che la visione del futuro post-apocalittico di The Last of Us è decisamente pessimista: la violenza detta legge, rimanere in vita è l'unico imperativo rimasto, la paura è l'unico stimolo. Perché i mostri sono ovunque e gli umani rimasti sono peggio di loro.
Joel cerca di spezzare il capocollo ad un fan di Justin Bieber,
che però sembra avere la meglio: è l'apocalisse.

L'intuizione è quella di farci vivere il mondo venti anni dopo l'infezione (si pensi invece cosa accade in The Walking Dead, in cui vengono registrate principalmente le prime impressioni dopo la tragedia zombie), quando le cose si sono ormai "normalizzate". Sappiamo che a zombificare gli umani è un fungo (cosa che regala un notevole tocco di realismo -video), sappiamo che la vita nelle città è dura e che fuori da esse si muore fin troppo facilmente. Non c'è più l'effetto sorpresa se in un bosco incontri un clicker, non stupisce che gli uomini si ammazzino a randellate, a coltellate, a pugni in faccia. Non stupisce neanche se gli sbirri sono dei pazzi assassini né se pazzi assassini sono anche i pochi non infetti che incontri in un bosco.
La gioia del checkpoint eccita gli sbirri di tutte le ere.
L'allusione alla fragilità della nostra società è lampante. Messi in crisi, posti di fronte a un problema insormontabile come quello dei clicker (ma se fosse un altro virus? Se fosse un altro evento catastrofico?) gli uomini perdono il controllo su loro stessi, e sprofondano nella barbarie. Il problema dell'umanità sembra essere una confusione di priorità: dopo che il mondo è stato invaso da questa sorta di zombie a trazione micotica, detti clicker a causa dei loro click ecolocanti (?) (o runner se corrono, o bloater se blottano, a seconda del'infezione) nessuno sembra capire che la sopravvivenza è legata alla collaborazione e non, appunto, alla pura e semplice sopravvivenza. Joel, nei vent'anni che lo separano dall'inizio dalla diffusione dell'epidemia fungina, si è indurito ed è diventato una macchina da guerra: freddo, spietato, implacabile. Ma è proprio questa sua evoluzione, da persona inserita in un contesto sociale ad amministratore unico della propria salvezza, a simboleggiare la caduta dell'umanità nel baratro.
Joel è, in effetti, solo uno fra tanti. Tutti, nell'emergenza, hanno adottato questo approccio, garantendo, paradossalmente, la sopravvivenza a loro stessi ma condannando l'umanità nella sua interezza.
Mò dimmi dove lo trovi, un tabacchi.
La quiete delle foreste rimane un egregio esempio di come il mondo, pur cambiando per gli uomini, rimane testimone indifferente del declino della civiltà. Gli animali conducono la loro vita come se nulla fosse, alcuni addirittura si riappropriano delle città. Per un cervo essere aggrediti da un lupo, da un uomo o da un clicker non fa differenza. La natura segue il suo corso, cieca, inesorabile e soprattutto sorda di fronte ai lamenti di coloro che si credevano suoi figli prediletti. Così i manufatti umani si perdono nel fango, tra le radici, in edifici prossimi alla rovina e pronti ad inghiottire il ricordo dell'umanità che fu. Perdendo via via la tecnica, la cultura, gli oggetti, la società, dell'uomo rimane solo l'aspetto ferale e istintivo. Il crollo di una fragile civiltà troppo dipendente da se stessa.
Insomma, la comunità del presente perde contatto con quella del passato, e via via che la dissoluzione aumenta, questo contatto si sfalda sempre più, in un turbine di imbarbariento inarrestabile. Interessante dunque il rapporto con il passato nel legame tra Ellie e Joel. Joel nella sua durezza rappresenta anche uno dei pochi agganci rimasti ad una conoscienza collettiva ormai perduta, per il semplice fatto che ne faceva parte. Joel è portatore di esperienza, ricorda tempi migliori, ma li allontana da sè, proprio perché sa che il ricordo di un mondo migliore, pur con i suoi difetti, non può che essere doloroso, anche e soprattutto in seguito alla morte della figlia. Ellie invece è nata in un mondo già devastato, non sa cos'è un caffè, è curiosa, ma è condannata ad un "non sapere", frammentario, vago, che rende il nostro mondo una realtà sbiadita dai contorni quasi leggendari. Ellie impara a fischiare come se fosse la prima persona al mondo che fischia. Ogni conoscenza è per lei una conquista.
Ellie fantastica sul passato.
Ellie rappresenta, da più punti di vista, il futuro della razza umana. Joel fa di tutto per farla sopravvivere, ma così facendo perpetua il dramma della sopravvivenza del singolo a scapito della comunità. Ellie impara a uccidere, a sparare, a cacciare, ma non a fidarsi del prossimo... Joel è infatti ormai emotivamente distrutto, è il risultato delle sue esperienze più dure.
All'interno del gioco Joel è dunque fin da subito colui che condanna alla barbarie l'umanità.
Di più: è l'emblema dell'umanità che condanna sè stessa.
Da qui in poi si parla SOLO del FINALE.
Von Fieber ha detto di avvertivi.
Scopo del gioco è scortare Ellie in uno sfuggente centro medico: la ragazza infatti pare essere l'unica persona al mondo immune al contagio del fungo, e quindi potrebbe essere la chiave per una cura o un vaccino. Da questa missione, insomma, dipende il futuro della razza umana, che eliminando ciò che ha causato l'origine della barbarie riuscirebbe (forse) a recuperare le forze, senza angoscianti contagi, senza ferocia, senza paura.
Purtroppo però, una volta giunto a destinazione, Joel scopre che, per analizzare la ragazza, occorrerà sottoporla ad un'intervento chirurgico mortale.
Joel è dunque costretto a compiere una scelta dura, complessa, difficilmente classificabile.
A prima vista la decisione di Joel di salvare Ellie a scapito della possibilità di trovare un vaccino sembra un rifiuto a piegarsi alle logiche di violenza ormai dominanti in quel mondo devastato, una sorta di ritorno ad una morale più umana.
Giraffe. Hanno la lingua blu e vivono a Salt Lake City.
Una ragazzina morta in una asettica sala operatoria è meglio di tanti morti a causa del fungo e delle sue conseguenze, provano a spiegare le Luci: il sacrificio di un innocente di fronte alla dissoluzione dell'umanità, un piccolo male di fronte ad un grande male, è accettabile, è logico, è giusto.
Ovviamente Joel non ci sta. Joel impedisce alle Luci di operare la ragazza, e apparentemente sembra che non si voglia piegare alla logica del male minore: uccidere Ellie è comunque un male, Ellie è l'umanità, Ellie è l'innocenza. Non può permettere, anche a fronte di un potenziale vaccino che salverebbe l'umanità, che le venga torto un capello.
Ma in breve si comprende che la scelta di Joel è tutto fuorchè una questione di etica: Joel non considera il male, Joel non valuta le sue azioni da un contesto globale. Quello del male minore era già per Joel uno stile di vita: uccidere per sopravvivere. E infatti non si fa problemi a sacrificare numerose vite per salvare quella di Ellie, agendo in un contesto in cui il minore dei mali è decisamente soggettivo (opponendosi al male minore delle Luci, freddo, calcolato, logicamente inoppugnabile - ma pur sempre sbagliato).
Joel, come si suol dire, ammazza anche il gatto.
Ah no, è un uomo.
Il gesto di Joel è in definitiva egoistico, privato: l'eterno dilemma morale "è giusto sacrificare un uomo per salvarne molti?" viene svuotato del suo significato. Joel agisce, come ha sempre fatto negli ultimi anni della sua vita, per se stesso. Ellie è entrata nella sua vita, ha sostituito la figlia scomparsa, gli ha regalato una parvenza di stabilità. Joel deve sopravvivere al meglio, e per sopravvivere al meglio ha bisogno di Ellie. Non c'è altruismo: Ellie nel finale del gioco fa capire che era pronta al sacrificio, per garantire un futuro migliore agli altri. Chiede a Joel di giurare che la storia che le ha raccontato (ovvero che non si possa creare una cura) sia vera. Il "Lo Giuro" di Joel del finale non serve a proteggere Ellie dalla verità o dal senso di colpa (la ragazza in fondo sa che Joel sta mentendo, nonostante decida di credergli), piuttosto serve a Joel per giustificare le sue azioni barbare e egoiste. Joel non mente a Ellie, ma mente a se stesso, lasciandoci capire che è sopravvissuto in questo mondo imbarbarito continuando a crearsi menzogne: Joel finge di non avere bisogno di nessuno, Joel finge di credere che la sopravvivenza giustifica ogni genere di violenza, Joel finge di credere che quel mondo morente e questo suo incedere testardo siano sopportabili.
Joel ha chiaramente bisogno di forti motivazioni per andare avanti: accetta il suo compito di (presunto?) salvatore dell'umanità e conduce Ellie al centro di ricerca delle Luci, ma capisce che, una volta privato della ragazzina, la sua vita tornerebbe vuota. E agisce di conseguenza, condannando l'umanità ma garantendosi uno scopo.
Il suo agire è impulsivo, perché è consapevole che se si fermasse a pensare sarebbe sopraffatto dal dolore del ricordo. L'esistenza di Joel è in frantumi. Condanna tutti: Ellie, il fratello Tom, i predoni e gli sbirri, ogni uomo, donna e bambino, a condividere con lui i cocci di un mondo devastato e ostile, ma ormai così familiare da divenire l'unico auspicabile, proprio perché ancorato ad un eterno presente, ad una continua emergenza, ad una costante tensione che tengono lontani il passato e il costante dolore della figlia scomparsa.
Ma chi è, o chi sono, in definitiva, i Last of Us, gli Ultimi di Noi?
Difficile rispondere. Forse l'umanità intera, o meglio quel che ne rimane, rassegnata all'estinzione. Forse Joel, tra gli ultimi a ricordare un mondo diverso. O forse la comunità del fratello di Joel, Tom, dove i protagonisti decideranno di mettere radici alla fine del gioco.
In quest'ultima prospettiva Ellie diventa cruciale nel divenire speranza per una nuova comunità, per un nuovo inizio. Ma in questo caso sarebbero anche e soprattutto the First of Us, i primi di noi, rappresentanti di un nuovo inizio, e il gioco non mi sembra così orientato verso l'ottimismo.
Proprio no.

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